Pandemia e incertezza geopolitica sono state come una secchiata d’acqua gelida che ha risvegliato le aziende produttive di mezzo mondo, mettendole di fronte ai rischi associati a supply chain complesse, poco controllabili e distanti geograficamente.
Il reshoring (o rilocalizzazione in italiano, ossia il rientro delle produzioni nel Paese d’origine) è sicuramente uno degli argomenti più chiacchierati degli ultimi tempi, soprattutto dopo che la pandemia e la recente incertezza geopolitica hanno messo a nudo la fragilità delle aziende con la filiera produttiva polverizzata in giro per il mondo.
Infatti, dopo che per decenni (soprattutto tra gli anni ‘80 e ‘00) molte aziende hanno delocalizzato all’estero per ridurre i costi di produzione e manodopera, ormai da qualche tempo si è cominciato a chiedersi se quel gioco valga ancora la candela.
Delocalizzando le proprie produzioni all’estero, le aziende occidentali hanno trasformato de facto l’Asia (Cina in primis) nella fabbrica del mondo; ma la pandemia, i lockdown e le tensioni tra Cina e Stati Uniti in merito a Taiwan hanno dimostrato quanto sia rischioso mettere tutta le uova in un solo paniere.
Perché quando i componenti o i semilavorati non giungono dalla Cina (e si sprecano le notizie arrivate in tal senso negli ultimi mesi) c’è poco da fare: le aziende non possono che fermarsi e aspettare, con tutto ciò che ne consegue.
Senza dimenticare che a tutto questo si aggiunge il costo dei trasporti, in costante crescita a causa della crisi energetica e che, non di rado, arriva a superare addirittura il valore delle merci da trasportare.
E quando le merci arrivano a destinazione, spesso e volentieri lo fanno con estremo ritardo, mettendo in difficoltà i piani di lavoro delle aziende costrette a fermi di produzione.
Non è un caso, quindi, che questo contesto macro-economico così incerto e ballerino abbia intensificato gli sforzi e le strategie di pianificazione delle aziende per mantenere un controllo più stretto sulle proprie supply chain, diversificando le fonti di approvvigionamento o facendo reshoring delle produzioni.
E come strategia di ottimizzazione della supply chain di medio-lungo periodo è proprio il tema del reshoring a essere finito sulle scrivanie di CEO e Responsabili della Logistica delle più importanti multinazionali al mondo.
Riprendere il controllo e riavvicinare le attività critiche della propria supply chain, per un’azienda significa infatti:
- rendersi più agile e resiliente ai rischi e alle interruzioni globali delle catene di approvvigionamento;
- ridurre l’impatto dei costi volatili del trasporto marittimo e della congestione dei porti;
- ridurre le emissioni di CO2 riconducibili alle attività di spedizione e produzione;
- ridurre il rischio di inquinamento, danni ambientali e lavoro minorile, perché si ottiene più trasparenza nel processo produttivo (difficile, invece, quando si delega a un’azienda dall’altra parte del mondo);
- conquistare la preferenza d’acquisto di tutti quei clienti (sempre più numerosi) che privilegiano i prodotti di produzione nazionale;
- consolidare la propria reputazione in campo ambientale, alla luce del risparmio in emissioni inquinanti.
Ovviamente non è tutto oro quello che luccica: riportare “a casa” la produzione ha un costo per le aziende, stimato in una forbice che va dal 25% al 40% dalle stesse aziende che hanno già imboccato la strada della rilocalizzazione, tra maggior costo della manodopera, maggior imposizione fiscale e contesto normativo più stringente.
Allo stesso tempo, però, per valutare la bontà economica di una strategia di reshoring è necessario considerare il contesto completo, non solo i “costi vivi”.
Bisogna infatti tenere in considerazione il cosiddetto Total Cost of Ownership (TCO) dell’operazione. Cosa vuol dire TCO? È il costo per acquistare qualcosa più il costo per farlo funzionare durante la sua vita utile. L’idea è di prendere in considerazione il costo totale che un’azienda dovrà sostenere per gestire un bene, non solo il costo di acquisizione iniziale.
Nel caso del reshoring, nel TCO non si devono quindi considerare solo i costi diretti della produzione nel proprio Paese (stipendi, fisco e legge), ma anche i risparmi che questa operazione comporta: basta fermi di produzione perché non arrivano i materiali dalla Cina, basta container in cui la spedizione incide per il 200% del valore della merce, basta cattiva pubblicità perché l’azienda produce in un Paese in cui vengono calpestati i diritti dei lavoratori, ecc…
Calcolatrice alla mano, considerando tutte le voci in ballo in uno progetto di reshoring, riavvicinare la propria catena di approvvigionamento diventa quindi ancora più conveniente di quanto sembri, a prescindere dall’influenza della pandemia e dell’incertezza geopolitica.
Questo a patto che l’azienda sia in grado di strutturare una supply chain di prossimità che sia veloce ed efficace, e sappia costruirsi velocemente una rete di trasporti basata su furgoni veloci ed efficienti e non più navi lente, pesanti e sempre in ritardo.
Se vuoi leggere tutto il magazine Scarica la copia digitale – Edizione Febbraio 2023.
Per avere maggiori informazioni o richiedere subito una Spedizione Espressa e Dedicata, clicca qui.
Seguici su Linkedin!